Software per valutazione SLC

Samuel De Fazio

Valutazione SLC: disponibile il mio software programmato in Excel

È ora disponibile il file Excel programmato per la valutazione SLC (stress lavoro-correlato) secondo le linee guida pubblicate dall’INAIL a ottobre 2017, aggiornando quelle del 2011.

Il mio file, scaricabile dal portale iCLHUB, si propone come alternativa alla piattaforma online messa a disposizione dall’INAIL, a cui si può accedere solo previa autenticazione.

Oltre a essere funzionante offline, ha il pregio di poter essere modificato a piacimento dall’utilizzatore, così che possa essere adattato alle sue esigenze.

Si invitano coloro che vorranno scaricarlo a considerare che:

  • La responsabilità della valutazione dei rischi – qualunque essi siano, quindi anche l’SLC – grava sul datore di lavoro.
  • Per ottenere il miglior risultato possibile, la valutazione SLC e la base di dati elaborati dal software devono essere costantemente aggiornate, almeno una volta l’anno.

Riflessioni sui contenuti e durata della formazione per i lavoratori

Riflessioni sui contenuti e durata della formazione per i lavoratori.

In materia di salute e sicurezza sul lavoro la formazione è obbligatoria e sottostà a regole normative e di mercato che possono essere inadeguate allo scopo: la tutela fisica e psicologica delle persone.

È un argomento spinoso, lo so, la formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro per i lavoratori. Ed è reso ancor più difficile dall’estrema ignoranza che le imprese hanno sull’argomento, unita allo scetticismo che provocano molti (troppi) operatori del settore che ci speculano sopra.

Il criterio con cui è poi stata scritta la norma di riferimento e l’accordo che ne regola i contenuti e la durata, poi, non è proprio dei più illuminati.

Partiamo dal fatto che sono individuati contenuti standard basati quasi esclusivamente su presunzioni. Si presume che aziende che operano in contesti merceologici simili, abbiano rischi simili. Il che può anche essere vero, fintanto che si affronta l’argomento in linea generale. Ma nel momento in cui la formazione assume un ruolo centrale nella prevenzione di incidenti e infortuni o malattie professionali o, più in generale, nella promozione della cultura della salute, questo approccio è assolutamente fallace e inadeguato: aziende con la stessa classificazione ATECO possono avere rischi diversi o rischi uguali ma a cui il processo di valutazione ha assegnato gradi differenti anche in modo sensibile.

Facciamo un esempio: tre officine meccaniche di tre datori di lavoro diversi. La prima impiega un solo operario, che è anche il titolare, ed è specializzata nel restauro di automobili d’epoca, ha un ambiente di lavoro relativamente piccolo e ordinato, funzionale allo scopo, e le lavorazioni sotto alle automobili sono effettuate scendendo in una fossa. La seconda è un’officina in cui lavorano cinque persone, in un ambiente e in un contesto in cui si dà poca importanza alla sicurezza, ci sono poche informazioni, strumenti e attrezzature vecchie e in cattivo stato di manutenzione, raramente sottoposte a controllo o revisione, un ambiente sporco e disordinato in cui si trovano vicini oggetti e sostanze infiammabili e potenziali fonti d’innesco perché i lavoratori fumano all’interno dei locali. La terza è un’officina nuova e all’avanguardia, un cui molte attività sono assistite da robot, e l’ambiente è organizzato, pulito e ordinato, i lavoratori sono tutti tecnici specializzati che frequentano frequentemente corsi di formazione e aggiornamento.

Ebbene, non serve un genio per intuire che i rischi presunti possono anche essere identici, ma quelli reali non lo sono affatto.

E qui la prima critica, al legislatore: visto che si vuole spostare l’accento sull’adeguatezza dei sistemi di organizzazione e di controllo, perché non si richiede una formazione adeguata al contesto, anziché una cosa che troppo spesso è standardizzata?

Secondariamente, vi invito a riflettere sull’essenza stessa della formazione. Questa è dovuta a un processo comunicativo che è finalizzato a trasferire dalla mente del docente alla mente del discente tutti quei concetti che devono servire a quest’ultimo per lavorare in sicurezza, conoscendo i suoi diritti, i suoi doveri e il modo in cui rapportarsi con gli altri e valutare i rischi della sua specifica attività. Quindi la comunicazione è efficace se e solo se il concetto che sta nella testa dell’emittente viene trasferito nella testa del ricevente e quest’ultimo elabora lo stesso concetto iniziale, partendo dalle informazioni ricevute. Se ciò non avviene, la comunicazione ha fallito. La formazione ha fallito. E bisognerà necessariamente interrogarsi sulle cause, perché non è detto che sia esclusivamente colpa del ricevente: se parlo a un sordo e questo non mi capisce, è scemo lui, o sono scemo io che non uso un canale e un mezzo adeguato? Se faccio una lezione a un cieco usando grafici e diapositive, è scemo lui o sono scemo io che non mi rendo conto che il metodo che ho scelto è assolutamente inefficace? Se parlo in gergo tecnico a un neofita, non posso certamente aspettarmi che mi comprenda.

E dunque la seconda critica, al sistema messo in piedi dagli enti di formazione: quanto può essere utile una lezione standardizzata, che non tiene conto delle dovute variabili e che viene progettata con il parametro della “durata massima” anziché della “durata minima” (prevista per legge)?

Se al termine delle otto ore di corso per i lavoratori a rischio basso il docente si rende conto che la classe non è adeguatamente preparata, a mio modo di vedere dovrebbe proseguire e cambiare modo di fare lezione, variare registro linguistico, mezzi e canali di comunicazione. Parimenti, se una persona padroneggia già un determinato argomento, ripeterlo ulteriormente potrebbe addirittura creare l’effetto non voluto di creare confusione, aumentando, di fatto, il grado di rischio.

Non si tratta di bocciare o promuovere persone, perché per quello c’è la scuola. A ben vedere, “promuovere” o “bocciare” non sono nemmeno concetti contemplati dalla norma: il punto è che finché le informazioni idonee e ritenute necessarie a salvaguardare la sicurezza del lavoratore non sono state assimilate dallo stesso, la formazione dovrebbe andare avanti a oltranza, a prescindere dal miglioramento e dall’aggiornamento continuo.

Sui costi della non sicurezza

Sui costi della non sicurezza.

Un recente comunicato stampa dell’OSHA (l’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro), ripreso poi dalle principali testate specializzate sull’argomento, racconta come il costo, per l’Unione Europea, della non sicurezza sia arrivato, nel 2017, alla cifra di 476 miliardi di Euro. 476.000.000.000. Quattrocentosettantaseimiliardi. Causati da infortuni o malattie professionali. Di questa cifra, circa il 25% è dovuto ai tumori professionali.

La cifra legata alla non sicurezza è importante e, se confrontata con il PIL dell’UE del 2016, varrebbe circa il 3%. Detto molto malamente, è come se ogni 100 € fatturati, ognuno di noi ne pagasse 3 per pagare infortuni o malattie professionali.

Il fatto, però, è che in questi termini è davvero detto “molto malamente”. Perché i costi della non sicurezza, non possono essere solamente calcolati sulla spesa pubblica che serve a coprire gli infortuni e le malattie professionali.

Provo a spiegarmi meglio: i costi sostenuti dagli enti pubblici di previdenza e di assistenza (di cui possiamo avere un consuntivo con cadenza annuale) sono solo una parte dei costi economici che effettivamente derivano dalla non sicurezza.

Quali sono, dunque, le altre voci di costo?

Per rispondere a questa domanda non basta di sicuro un breve articolo, poiché la risposta va ricercata anzitutto a livello globale e sul piano dell’organizzazione e della strategia.

Facciamo un esempio concreto, con un semplice ragionamento per assurdo.

Un’impresa privata, che paga un lavoratore dipendente (chiamiamolo Tizio) 10 Euro l’ora, in condizioni di sicurezza vedrà remunerato l’investimento fatto su tale risorsa, perché questa produrrà valore e ricavi. Diciamo che ogni ora di lavoro, ciò che viene prodotto ha un valore di 100 Euro.

Immaginiamo che Tizio si debba fermare e non possa lavorare per un giorno, perché infortunato. L’impresa dovrà comunque pagare il suo stipendio, quindi avrà comunque un esborso di 80 Euro (calcolato sulle canoniche 8 ore lavorative), ma se Tizio era l’unico lavoratore impiegato, significa che per l’intera giornata l’azienda non avrà prodotto nulla, il che significa che avrà perso 800 Euro. Il che, di fatto, è come dover sostenere un costo di uguale importo.

Immaginiamo poi che Tizio dovesse produrre qualcosa di estremamente importante per un cliente, il quale, non ricevendo in tempo l’ordine perché l’impresa è stata improduttiva per un giorno, decide di rescindere il contratto di fornitura, mettendo a repentaglio il fatturato di mesi di lavoro futuro.

Chiaramente, l’imprenditore non gradisce che si prospetti una situazione simile, quindi assume una nuova risorsa specializzata (che nella migliore delle ipotesi costerà anch’essa 10 Euro l’ora), oppure ne impiega una dal livello professionale inferiore rispetto a Tizio (chiamiamola Caio), per fronteggiare una situazione momentanea. Questa soluzione, tuttavia, sebbene comporti un minor costo del lavoro, potrebbe comportare anche una minore redditività dello stesso (sia essa intesa in termini quantitativi o qualitativi).

Volendo mantenere lo stesso livello di quantità e di qualità, Caio dovrà necessariamente essere formato in modo specifico per fagli acquisire le stesse capacità e conoscenze di Tizio. Altra voce di costo da sostenere. A cui comunque si aggiunge quello della mancata produzione per il periodo in cui Caio è in aula e non in produzione.

Si può andare avanti all’infinito, anche considerando che, alla fine dell’anno, gli enti assicurativi probabilmente aumenteranno il premio richiesto, sulla base della variazione della classe di rischio che è derivata dall’infortunio.

Dio non voglia che Tizio, a seguito dell’infortunio, riceva un’invalidità permanente che non gli permetterà più di lavorare: questo significherebbe dover erogare una pensione d’invalidità che sarebbe finanziata con le nostre tasse e le imposte. Se aumenta il numero delle persone a cui pagare una pensione, probabilmente lo Stato farà in modo di aumentare il gettito.

Poi potremmo discutere su tutti quei costi occulti necessari per difendersi in tribunale (avvocati, spese processuali, periti di parte…) o per pagare le sanzioni amministrative o penali comminate, o per risarcire il danno procurato a livello civile. E, di conseguenza, i costi per valutare nuovamente i rischi, progettare realizzare e mantenere efficace un modello organizzativo e di controllo che sia idoneo, adeguato e che possa garantire la dovuta conformità alle disposizioni di legge e, magare, anche alle norme tecniche e agli standard internazionali.

Tutto questo, e molto di più, sono i costi della non sicurezza.

Ipotizziamo che Tizio si sia infortunato battendo la testa contro una sporgenza, perché sprovvisto di caschetto (DPI) che avrebbe dovuto essere consegnato, ma non è mai stato acquistato, per risparmiare una decina di Euro (e sto arrotondando per eccesso).

Bene. Vi sembra logico dover pagare tutto quello che abbiamo visto, e molto di più, solo per aver “risparmiato” 10 Euro? Se la vostra risposta è affermativa, signori, avete grossi problemi e il primo è quello di non saper valutare adeguatamente gli investimenti. Forse, fareste cosa migliore se smetteste di fare i datori di lavoro.

Sicurezza e Organizzazione

Organizzazione e sicurezzaSicurezza e Organizzazione

È forse il più sottovalutato e meno considerato degli aspetti relativi alla sicurezza sul lavoro, eppure c’è un articolo appositamente dedicato: il 30 del Dlgs 81/2008, che tratta specificamente di sicurezza e organizzazione.

Se quasi tutti conoscono – di fama – il decreto sulla sicurezza sul lavoro, molti meno hanno familiarità con quello sulla responsabilità amministrativa degli enti. Questo perché c’è la tendenza a considerare quest’ultimo applicabile principalmente alle grandi imprese, ma sicurezza e organizzazione sono questioni comuni a tutti.

Il dato sconcertante, però, è che quasi nessuno (nella mia esperienza) si rende conto che il primo richiama espressamente il secondo con il suo articolo 30. Questo, di per sé, la potrebbe già dire lunga su parecchi consulenti in materia di sicurezza sul lavoro che la “vendono” solo come quella norma che obbliga le aziende a fare i corsi per i dipendenti (anche se dovrebbero essere per i lavoratori, cosa assai diversa) e a scrivere il DVR.

Per chi non conoscesse il Dlgs 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti, in estrema sintesi si può riassumere come quella norma che elenca una serie di reati contemplati da altre norme (per esempio il Codice Penale) per i quali si ritiene responsabile non solo la persona fisica che ha materialmente commesso o permesso l’illecito, ma anche la persona giuridica nel cui interesse o per il cui vantaggio questo illecito è stato commesso o tentato, e l’unico modo per l’ente di uscirne pulito è dimostrare di avere progettato e implementato un modello organizzativo adeguato a prevenire ed evitare l’evento. Solo se si riesce a provare che il sistema di controllo era attivo e che il fatto è stato commesso eludendo volontariamente i controlli predisposti, allora l’ente si può avvalere della cosiddetta “esimente” ed evitare pesanti sanzioni.

In pratica: se non sei organizzato bene e qualcuno commette un reato, l’azienda può essere co-responsabile.

Due dei reati contemplati (trattati dall’art. 25-septies) sono quelli previsti dagli articoli 589 e 590 del Codice Penale: l’omicidio colposo o le lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Ora, se è vero che l’adozione di un modello organizzativo (quindi politiche interne, procedure, sistema di controlli organizzati e specifici, figure preposte alla vigilanza interna…) è solamente facoltativo secondo le disposizioni del Dlgs 231/2001, il discorso cambia radicalmente se si considera il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro.

Questo perché con l’articolo 30, il decreto dispone che “il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n° 231, DEVE essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici”…

Ovvero: tutte le aziende devono organizzarsi e dimostrare di essere organizzate per evitare che qualcuno si faccia male o muoia mentre sta lavorando.

Fortunatamente, organizzare un’azienda deve necessariamente tenere conto delle sue caratteristiche, quindi è possibile che due realtà abbiano modelli simili (magari realizzati sulla base di linee guida generali), ma è assolutamente escluso che questi siano esattamente identici. Ognuno deve organizzarsi secondo le sue peculiarità e secondo le sue necessità.

Il lato positivo della faccenda, è che questo genere di organizzazione, se progettato, realizzato e applicato bene, a fronte di una consistente spesa iniziale, già sul medio periodo consente di vedere risultati positivi, anche in assenza di infortuni e quindi lesioni o incidenti mortali.

In particolare, mi riferisco a un miglioramento generale della gestione aziendale, non solo con riguardo agli adempimenti strettamente connessi alla sicurezza, ma anche con riguardo ad altre voci di costo che sono comunque previste, come i premi assicurativi da versare all’INAIL.

In che modo? Per esempio attraverso la richiesta di riduzione del premio dovuto, che si può fare compilando e trasmettendo il modulo OT 24 (per le aziende operative da più di due anni) o il modulo OT 20 (per quelle nel primo biennio).

Tutto questo, senza dimenticare che l’adozione del modello di organizzazione e di gestione nelle imprese fino a 50 lavoratori rientra tra le attività finanziabili.

Vincere la battaglia quotidiana nella guerra contro gli incidenti sul lavoro è “solo” questione di organizzazione e ricordatevi che il miglior condottiero è quello che vince senza combattere.