Valutazione d’impatto sulla protezione dei dati: si può fare con il software CNIL, ma attenzione alle insidie

Valutazione d’impatto sulla protezione dei dati: si può fare con il software CNIL, ma attenzione alle insidie

Il Garante e la CNIL hanno collaborato alla creazione di un software apposta, che aiuta nella conduzione della valutazione

In un precedente articolo, dal titolo Garante privacy: quando e chi deve effettuare la valutazione di impatto, è stato illustrato cosa fosse la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati, quando e chi dovesse farla obbligatoriamente secondo il provvedimento del Garante dell’11 ottobre 2018. 

La valutazione d’impatto (o data protection impact assessment, DPIA) deve comunque essere fatta quando un trattamento può presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche e dovrebbe contenere almeno:

a) Una descrizione dei trattamenti previsti e delle loro finalità; 
b) Una valutazione della necessità e proporzionalità dei trattamenti in relazione alle finalità; 
c) Una valutazione dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati; 
d) Le misure previste per affrontare i rischi, includendo le garanzie, le misure di sicurezza e i meccanismi per garantire la protezione dei dati personali e dimostrare la conformità al GDPR;
e) Le opinioni del DPO e degli interessati.
Per aiutare i soggetti obbligati, il Garante ha collaborato con il suo omologo francese, la CNIL, nel preparare uno strumento informatico per condurre una valutazione d’impatto. Il tool si chiama PIA, è gratuito e disponibile sul portale web della CNIL ed è stato recentemente aggiornato. 

La valutazione guidata dal tool parte con la descrizione del contesto di riferimento, scrivendo una presentazione sintetica del trattamento e le responsabilità connesse e individuando gli standard applicabili allo stesso. In questo frangente si descrivono le categorie di dati trattati, il loro ciclo di vita e le risorse impiegate nel trattamento. 

Il passaggio successivo è descrivere i principii che sono applicati al trattamento in questione, con lo scopo di esaminare quelli di proporzionalità e necessità, in modo da individuare se gli scopi siano specifici, espliciti e legittimi, quali siano le basi giuridiche che legittimano il trattamento, se i dati siano adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario, se siano esatti e aggiornati e per quanto tempo siano conservati. Si esplicitano, inoltre, le misure poste a tutela dei diritti degli interessati. 

In seguito, si descrivono le misure di sicurezza e si identificano i rischi su tre direttrici: accesso illegittimo, modifiche indesiderate e perdita dei dati. In questa parte il software chiede di esprimere un giudizio qualitativo sulla probabilità del rischio e sulla sua gravità. 
Una volta inserite tutte queste informazioni, il tool permette di visualizzare in forma grafica una mappatura dei rischi in relazione agli impatti potenziali, alle minacce, alle fonti e alle misure di sicurezza e chiede di compilare un eventuale piano d’azione per il miglioramento e di inserire i pareri del DPO e degli interessati. 
Al termine, è richiesta la validazione della DPIA da parte del titolare o del responsabile. 

Pro

  • Semplicità di utilizzo;
  • Supporti con definizioni e guide;
  • Gratuità;
  • Compatibilità con vari sistemi operativi e integrabile nei propri server in modalità front-end e back end.

Contro

  • Limitazione alle categorie di rischio alle sole tre indicate (accesso illegittimo, modifiche indesiderate, perdita di dati) e focalizzazione sui rischi per i dati;
  • Non considerazione del fatto che i rischi da valutare sono sui diritti e le libertà delle persone fisiche;
  • Incompleta applicazione dell’approccio scientifico richiesto dalle norme ISO 29134 e ISO 31000, sulla valutazione d’impatto e sulla gestione dei rischi, in particolare nella definizione qualitativa della probabilità e della gravità del danno arrecato;
  • Mancata considerazione del fatto che non tutte le organizzazioni possono avere persone diverse come “autore”, “revisore” e “validatore” e che non tutte le organizzazioni hanno un DPO o la possibilità di interpellare gli interessati o le loro rappresentanze.

Attenzione!
Particolarmente significativo sarà il supporto del registro dei trattamenti e delle informative, due documenti che dovranno essere assolutamente coerenti con la DPIA, che sarà quindi un modo per effettuare anche una prima verifica della bontà e dell’adeguatezza dell’intero sistema di gestione. 
Infine, è necessario, se non doveroso, ricordare e sottolineare ancora una volta che: 

  • “Aiutare a condurre” una valutazione NON significa “effettuare” una valutazione. DPIA non valuta, ma permette di raccogliere le informazioni necessarie e le organizza in modo funzionale per il valutatore;
  • La valutazione la fa l’operatore, non il software;
  • Una “valutazione” non è una “misurazione”;
  • In molti ambiti la valutazione è un processo complesso che richiede competenze particolari e trasversali che non sempre sono nelle disponibilità di una sola persona e, perciò, è sempre un buon consiglio affidarsi, o almeno coinvolgere, a un consulente specializzato in protezione dei dati.


Fonte: Fiscal Focus

Protezione dei dati Vs Fisco. Quando si fanno i conti senza l’oste

Protezione dei dati Vs Fisco. Quando si fanno i conti senza l’oste

Il provvedimento contro l’Agenzia delle entrate sull’obbligo di fatturazione elettronica, del 15/11/2018, esplicita il ruolo del Garante Privacy e ci mostra che “la legge è uguale per tutti”

In questi giorni uno degli argomenti più discussi riguarda il provvedimento del Garante Privacy emesso contro l’Agenzia delle Entrate, relativo alla fatturazione elettronica, esercitando il suo potere di controllo preventivo e ponendosi come scudo a difesa dei cittadini. E facendo sì che sia tutto il sistema a guadagnarci.

Il provvedimento del 15 novembre arriva subito dopo l’ultimo atto del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, del 5 novembre, che fa coppia con il precedente del 30 aprile. In entrambi i casi, l’agenzia ha adottato tali provvedimenti senza consultare il Garante, come previsto dalle norme.
Ulteriori criticità, poi, sono emerse in considerazione di altri elementi intrinsecamente legati alla fatturazione elettronica. Ecco i perché.

Obbligo di valutazione d’impatto

La fatturazione elettronica implica un trattamento sistematico di dati personali su larga scala, anche particolari, potenzialmente relativi ad ogni aspetto della vita quotidiana, e presenta un rischio elevato per i diritti e le libertà degli interessati. È chiaro che sussiste l’obbligo di valutazione d’impatto e, potenzialmente, di consultazione preventiva. Nulla di ciò è stato fatto.

Principio di proporzionalità ed eccedenza nel trattamento

L’Agenzia delle Entrate, oltre a rendere disponibile lo SDI per recapitare le fatture in qualità di “postino”, archivia sia i dati necessari ad assolvere gli obblighi fiscali (finalità legittima) che la fattura vera e propria in formato XML, che può contenere informazioni non necessarie a fini fiscali; detta presenza, pur contemplata nel provvedimento di aprile, non è tutelata da nessuna specifica misura volta ad assicurare il rispetto dei principi di limitazione della finalità, minimizzazione e riservatezza.

Altre criticità derivano dalla possibilità di accesso degli interessati a tutte le fatture elettroniche sul portale dell’Agenzia, nonostante il diritto di ottenerne una copia direttamente da chi l’ha emessa. In pratica si ha un ingiustificato incremento dei rischi per i diritti e le libertà di tutti i privati cittadini, insiti in un trattamento massivo e informatizzato di dati accessibili tramite un applicativo web.

Per tali motivi il Garante ritiene che siano violati i principi di protezione per impostazione predefinita e sin dalla progettazione del trattamento.

Il ruolo degli intermediari

Il Garante si è anche preoccupato della posizione, assai critica, degli intermediari, che ben poco possono fare, visto che l’intero trattamento deve essere eseguito nei modi e nei tempi decisi dall’Agenzia. Il pericolo maggiore è che, in caso di operatore economico persona fisica (professionista o ditta individuale), potrebbero essere consultate sia le fatture relative alla sfera professionale o imprenditoriale che quelle relative alla sfera privata. Ciò determinerebbe la concentrazione, soprattutto presso gli intermediari con maggior numero di clienti, di una mole enorme di informazioni che non si riscontrerebbe normalmente.

È facilmente intuibile che la presenza di simili banche dati sia un rischio elevato, il cui governo, da parte degli intermediari, potrebbe essere particolarmente oneroso, non solo in termini economici.

Altre criticità

Il Garante, inoltre, rileva che il protocollo FTP, base del sistema di comunicazione dello SDI, sia poco sicuro, e che nel trattamento gioca un ruolo fondamentale la PEC, che coinvolge implicitamente gli operatori di mercato che vendono il loro servizio di posta elettronica certificata: ciò significa che i dati personali contenuti delle fatture potrebbero (ragionevolmente) essere memorizzati sui server di gestione delle caselle PEC. Chi se ne assume la responsabilità?

Infine, il Garante ha criticato il servizio di conservazione messo gratuitamente a disposizione dalle Entrate, facendo notare che il contratto proposto prevede che “l’Agenzia non potrà essere ritenuta responsabile nei confronti del contribuente né nei confronti di altri soggetti, direttamente o indirettamente connessi o collegati con esso, per danni, diretti o indiretti, perdite di dati, violazione di diritti di terzi, ritardi, malfunzionamenti, interruzioni totali o parziali che si dovessero verificare in corso di esecuzione del servizio di conservazione”. In pratica l’Agenzia non si ritiene responsabile per la mancata applicazione del principio di integrità e riservatezza.

Conclusioni

Per tali motivi, il Garante ha doverosamente agito in difesa dei cittadini e dei loro intermediari, facendo notare che l’Agenzia ha operato al di fuori delle norme di riferimento, senza consultarlo e progettando e imponendo al mercato un sistema che viola in più punti i principi fondamentali della protezione dei dati, peraltro senza nemmeno volersene assumere le responsabilità. E se i dati non fossero disponibili per un malfunzionamento del sistema, chi ne risponderebbe? Il Garante ha praticamente chiarito che spetta all’Agenzia.

Ciò che è successo nei giorni scorsi, quindi, è facilmente sintetizzabile così: il Garante ha ricordato all’Agenzia che non può fare quello che le pare e che è bene che prima di giocare, conosca le regole del gioco. Dura lex, sed lex.


Fonte: Fiscal Focus

I registri delle attività di trattamento

I registri delle attività di trattamento.

Introdotto dal GDPR, sono strumenti fondamentali e irrinunciabili per gestire i trattamenti compiuti in un’organizzazione e aiutare il titolare o il responsabile del trattamento a mantenere i livelli adeguati di sicurezza.

L’8 ottobre 2018 il Garante Privacy ha pubblicato le istruzioni sul registro delle attività di trattamento, che s’inseriscono all’interno del quadro normativo come strumenti utili per sciogliere eventuali dubbi sull’obbligatorietà o meno della tenuta del registro, andando a spiegare con un linguaggio più semplice di quello usato nella norma europea ciò che deve essere fatto dai titolari e dai responsabili dei trattamenti.

Fonte normativa.

Il registro delle attività di trattamento è disciplinato dall’art. 30 del Regolamento (UE) 2016/679, anche conosciuto come GDPR, che ne descrive i contenuti, la forma e i casi in cui è obbligatorio. Ne esistono due tipi: quello del titolare e quello del responsabile del trattamento.

Il primo indica i dati del titolare stesso, elenca le finalità perseguite con ogni trattamento effettuato (giova ricordare, in questo momento, che per “trattamento” intendiamo qualsiasi attività o processo in cui siano coinvolti dati personali), descrive le categorie di interessati e di dati personali (per esempio: clienti e loro dati anagrafici, lavoratori dipendenti e loro dati relativi alle presenze, passanti e loro immagini riprese dalle telecamere di videosorveglianza…), indica le categorie di destinatari a cui vengono comunicati i dati personali, elenca i trasferimenti verso Paesi extra-UE od organizzazioni internazionali e le garanzie che sono poste in essere per tutelare il diritto delle persone alla protezione dei dati, indica i termini di conservazione e descrive le misure di sicurezza tecniche e organizzative adottate.

Il registro del responsabile del trattamento risulta più semplice, poiché è richiesto che indichi i dati del responsabile, le categorie di trattamento effettuate per conto di ogni titolare, elenca i trasferimenti verso Paesi extra-UE o organizzazioni internazionali e le garanzie che sono attuate per tutelare i diritti delle persone alla protezione dei dati e descrive le misure di sicurezza tecniche e organizzative adottate.

In ogni caso, i registri devono avere forma scritta e possono avere anche formato elettronico e devono essere esibiti agli organi di vigilanza qualora ne sia fatta richiesta.

Per quanto riguarda l’obbligatorietà, è stabilito che lo sia quando:

  • Si effettua almeno un trattamento che può presentare rischi per diritti o libertà degli interessati; o
  • Si effettua almeno un trattamento con continuità e sistematicità (anche periodicamente); o
  • Si effettua almeno un trattamento che prevede dati particolari (ovvero quelli riferiti alla salute, all’appartenenza a sindacati, al credo religioso, alle caratteristiche biometriche…) o riferiti a condanne penali o reati.

In ogni caso, se questi tre criteri fossero tutti inapplicabili nell’ambito che stiamo osservando, i registri sono obbligatori se il titolare o il responsabile hanno più di 250 dipendenti.

Criticità.

La tenuta dei registri, però, si accompagna ad alcune criticità che si dovrebbero considerare bene.

Anzitutto, bisogna individuare quale ruolo si ricopre: talvolta si è solo titolari del trattamento, talaltra solo responsabili. Molto spesso, quando si è responsabili del trattamento che ci è stato affidato da un titolare, si è nella condizione di essere i titolari dei trattamenti su cui abbiamo il completo potere di determinazione delle finalità e dei mezzi di realizzazione. È questo il caso tipico dei commercialisti, degli esperti contabili o dei consulenti del lavoro. Questi soggetti devono predisporre entrambi i registri.

La seconda criticità è data dalla forma del registro – che ovviamente deve essere privo di abrasioni e cancellazioni, con i fogli rilegati e non asportabili – che deve necessariamente essere “scritta”. Nel linguaggio giuridico, semplificando, un documento “in forma scritta” è quello su cui è apposta la firma di chi esercita la legale rappresentanza.

La terza risiede nell’eventuale forma elettronica: in Italia, perché un documento elettronico abbia validità legale, deve avere anche le caratteristiche previste dal Codice dell’Amministrazione Digitale, dal regolamento eIDAS, e dal DPCM 13 Novembre 2014 sulla formazione del documento informatico. È chiaro che non sono considerati validi, né opponibili in giudizio, documenti formati solo con programmi di uso comune per la videoscrittura.

La quarta è che il registro deve essere scritto e mantenuto aggiornato, dando prova delle varie versioni che si susseguono e dimostrazione della loro presenza a una certa data.

La quinta, infine, è rappresentata dal fatto che, qualora indicassimo informazioni non veritiere nei registri, nel momento in cui il Garante o la Guardia di Finanza ne volessero prendere visione, incorreremmo nel reato di falsa dichiarazione, perseguito penalmente.

Vantaggi.

I registri, tuttavia, sono anche forieri di vantaggi che si riflettono in modo concreto sull’intera organizzazione: come sottolinea lo stesso Garante, infatti, i registri sono documenti di censimento e analisi dei trattamenti effettuati. Si tratta di strumenti fondamentali non soltanto ai fini dell’eventuale supervisione da parte del Garante, ma anche allo scopo di disporre di un quadro aggiornato dei trattamenti in essere all’interno di un’azienda o di un soggetto pubblico, indispensabile per ogni valutazione e analisi del rischio. Proprio per questi motivi, il Garante ne raccomanda la redazione e l’aggiornamento poiché, secondo la sua opinione, questi non costituiscono solo un mero adempimento formale, bensì sono parte integrante di un sistema di corretta gestione dei dati personali; su queste considerazioni, quindi, esorta i titolari e i responsabili, a prescindere dalle dimensioni dell’organizzazione, a dotarsi di tale registro, prevedendo anche la possibilità, secondo le volontà del titolare o del responsabile, d’inserire ulteriori informazioni se lo si ritiene opportuno nell’ottica della complessiva valutazione di impatto dei trattamenti svolti.

In definitiva, i registri dei trattamenti sono obbligatori e necessari per tutti e, se adeguatamente curati nel tempo, sono uno strumento potentissimo per governare l’organizzazione e per difenderla in caso di ispezione o contenzioso, essendo la trasposizione documentale di tutto ciò che è stato fatto per aderire al principio di responsabilizzazione che fa da sfondo all’intero GDPR.


Fonte: Fiscal Focus

Molte idee molto confuse in vista del 25 maggio

Molte idee molto confuse in vista del 25 maggio

Attorno al GDPR sta montando un’attesa insana e giorno dopo giorno cresce la confusione, alimentata anche da chi dovrebbe fare ordine e chiarezza.

Avvicinandosi all’ormai famosa data del 25 maggio, giorno in cui il GDPR, il regolamento generale sulla protezione dei dati, entrato in vigore il 24 maggio 2016, ovvero circa due anni fa, tempo più che sufficiente per adeguare anche il più grande colosso internazionale alle nuove disposizioni, diventerà direttamente applicabile senza ulteriori passaggi di recepimento o ratificazione da parte di nessuno in nessun angolo del mondo conosciuto e civilizzato, sembra che si faccia a gara a chi è più esperto, più certificato, più competente, più…

Molte cose mi lasciano perplesso e, talvolta, mi fanno pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nella situazione che sto percependo. Fortunatamente trovo conforto da alcuni clienti e da alcuni colleghi.

La prima cosa che mi disturba è l’aura di ignoranza che aleggia e che si irradia dalle associazioni di categoria e i più rilevanti ordini professionali nazionali. Partendo dall’indifferenza delle prime, arrivando ai comunicati più assurdi dei secondi. Giusto per citarne alcuni: una sede territoriale dell’Ordine dei Consulenti dal Lavoro che “consiglia caldamente di non firmare contratti di consulenza con nessuno perché la norma [il GDPR, ndr] non si sa ancora se entrerà in vigore”; il Consiglio Nazionale Forense che consiglia di utilizzare tabelle compilabili in Excel per tenere i registri dei trattamenti, che sono documenti che dovranno avere valore probatorio e legale e avere forma scritta, che nel linguaggio giuridico significa, più o meno, che la generazione del file dovrebbe seguire come minimo uno schema logico tracciabile (marcature temporali, log delle modifiche, firme digitali…), il tutto senza considerare che i file proposti sul sito non sono in lingua italiana, e quindi praticamente inutilizzabili e, se impiegati, altamente rischiosi; il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, per ultimo, ha pubblicato un documento che, oltre a essere incoerente con la situazione normativa, non tiene conto nemmeno delle linee guida e delle raccomandazioni o delle opinioni degli organismi europei deputati alla privacy e arriva a dire che negli studi professionali (cito testualmente) “salvo casi particolari (ad esempio, ove lo Studio utilizzi telecamere a circuito chiuso o effettui tracciamento dell’ubicazione attraverso app su dispositivi mobili oppure utilizzi programmi di fidelizzazione o di pubblicità comportamentale), appare rara l’effettuazione, da parte del commercialista, di attività di monitoraggio sistematico e regolare”, come se rispettare le disposizioni antiriciclaggio, che partono da una prima valutazione del profilo del cliente da cui dipende solo l’inizio del rapporto professionale o l’obbligo di astensione, che prosegue con una profilazione attenta e costante nel tempo, spesso automatizzata, e che può produrre effetti giuridici anche rilevanti sulle persone fisiche (non solo l’interessato), non fosse un’attività di monitoraggio sistematico e regolare.

Secondariamente mi disturbano parecchio tutti i miei concorrenti che pretendono di vendere una soluzione onnicomprensiva e a basso costo. La protezione dei dati non si fa a basso costo, perché è standardizzabile il metodo di lavoro, non il risultato. Ci sono troppe variabili in causa, anche per il sito della nonna che vende torte, anche se “io faccio solo…”. Fai “solo” cosa? Di tutti i casi di videosorveglianza che ho trattato, non ve n’è uno identico agli altri, nemmeno nei presupposti! (Giusto per fare un esempio). Trattare i dati è la base dell’attività umana, sia sociale che economica. Lo è sempre stato e oggi è molto più percepibile; in futuro lo sarà probabilmente ancora di più. Se qualcuno vi proponesse di farvi un adeguamento al GDPR senza nemmeno avervi visto o intervistato, magari focalizzandosi su informative e consensi scritti perché “ora sono obbligatori”, sappiate che sta spudoratamente mentendo: primo perché lo erano anche prima, secondo perché non sono obbligatori (anche se la forma scritta è sicuramente la migliore, ma non è la sola, per dimostrare di aver informato e ottenuto il consenso, quando serve).

Tralascio poi il discorso sui software che promettono di fare tutto e di riparare da ogni rischio. Ne ho provati parecchi. Finora ho visto quasi sempre cose che fanno in bella veste ciò che un consulente serio e preparato riuscirebbe a fare anche senza, con un semplice PC con il pacchetto Open Office e senza nemmeno la connessione a Internet. Onestamente, l’unico che mi ha colpito in positivo per le sue caratteristiche tecniche “occulte” (conformità al CAD, al regolamento eIDAS, al GDPR, con misure di sicurezza by design e una serie di controlli sui dati inseriti attraverso le maschere, tanto per citarne alcune) è DPO Privacy Suite, sviluppato da Enterprise, il cui unico scopo è aiutare gli utenti a redigere, conservare e aggiornare i registri dei trattamenti dei dati personali, come richiesto dall’art. 30. Obbligo che ricade praticamente su chiunque; a distanza di anni, non ho ancora trovato un esempio su un caso in cui non sia obbligatorio, senza considerare la posizione del nostro Garante. Ecco, questo è (forse) l’unico consiglio di acquisto per mi sento di fare, perché è davvero uno strumento utile e ben fatto.

Questo è lo scenario, signore e signori: confusione. O, almeno, io la penso così.

Il giorno in cui vi domanderete a chi sia il caso di rivolgervi per avere anche solo un consulto, ricordatevi di chi questa materia la conosce bene e da anni cerca di mettervi in guardia e di assistervi.

Non vorrei farmi pubblicità, ma io sono uno di quelli. E non tollererò che la mia materia diventi quello schifo che molti (troppi) prima di me hanno fatto diventare la sicurezza sul lavoro. Sappiatelo.

Buona festa dei lavoratori a tutti!

Privacy e reati. Siamo sicuri che spariranno gli illeciti penali col GDPR?

Privacy e Reati. Siamo sicuri che spariranno gli illeciti penali col GDPR?

A breve (pare) il Codice Privacy sarà abrogato, facendo morire con sé tutte le sanzioni penali che si portava dietro. Ma è davvero così?

Negli scorsi giorni, a partire dal tardo pomeriggio del 21 marzo, abbiamo assistito a un tamtam mediatico attorno alla questione relativa all’abrogazione del Codice Privacy (il Dlgs 196/2003), resa pubblica dall’ufficio stampa del Governo, attraverso un comunicato diffuso sul sito web istituzionale. I maggiori “ripetitori” di questa notizia sono stati, prima che la stampa, i consulenti in materia, direttamente interessati e colpiti dalla norma.

Nel periodo immediatamente successivo, poi, qualcuno è anche riuscito a procurarsi e scambiare in rete una copia della bozza (sottolineo BOZZA) dell’atto con cui si dispone l’abrogazione del Codice. Da quel momento in poi, ognuno ha avuto modo di dire la sua e molti hanno notato che le sanzioni penali, con il nuovo testo normativo, sono ridotte all’osso e limitate alla falsità nelle dichiarazioni rese al Garante in fase ispettiva o alla turbativa dei procedimenti o delle ispezioni della stessa Autorità.

A parte il fatto che, personalmente, avrei preferito usassero la locuzione “autorità di controllo”, così da includere anche quelle degli altri Paesi dell’Unione, e ricordandoci che è pur sempre una bozza, siamo davvero sicuri che le fattispecie di reato sanzionate penalmente cesseranno di esistere una volta abrogato il Codice?

Secondo me no. Vi spiego perché.

Perché si continua a sbagliare intendendo la privacy come una cosa (materiale o immateriale che sia), mentre il GDPR vorrebbe che si abbandonasse questa prospettiva di pensiero. Non si deve proteggere la privacy, si devono tutelare i diritti e le libertà delle persone fisiche. Non si deve proteggere la privacy, si devono adottare comportamenti responsabili e virtuosi. Il fulcro si sposta dal dato al trattamento e alla finalità per cui è realizzato.

Quello che voglio dire è che se adottassimo la filosofia secondo cui i dati e le informazioni sono patrimonio e che i trattamenti sono un mezzo con cui avvalorarlo o deteriorarlo, allora potremmo capire che, a ben vedere, non avremmo bisogno di un nuovo corpo normativo in materia di reati penali sull’argomento.

Nel nostro Codice Penale, per esempio, partendo dal presupposto che i reati si dividono in delitti e contravvenzioni (fondamentalmente sulla base della loro gravità, i primi sono ritenuti più importanti), si contano circa 650 fattispecie di reato, a cui sono assegnate le varie sanzioni, con le cause aggravanti o attenuanti o di esclusione dalla pena. Tutte sono contenute nel Libro II e nel Libro III del Codice Penale.

Se scendiamo nel dettaglio, scopriamo che:

  • I reati indicati sono 652 (561 delitti e 91 contravvenzioni).
  • Esistono 283 delitti che possono essere commessi realizzando uno o più trattamenti combinati tra loro.
  • Esistono 15 contravvenzioni che possono essere commesse realizzando uno o più trattamenti combinati tra loro.

Consideriamo, inoltre, che anche l’omissione di trattamento potrebbe generare un illecito.

Quello che voglio dire, in altre parole, è che non penso sia necessario continuare a punire il mero fatto del trattamento, visto che abbiamo a disposizione una codice normativo che va a punire ciò che con il trattamento può essere realizzato.

Per fornire qualche esempio, al di là di quelli facilmente intuibili relativi alla corrispondenza, al domicilio, all’intromissione nella vita privata o all’interferenza nelle comunicazioni, posso citare:

Art. 278.
Offese all’onore o al prestigio del presidente della Repubblica.
Chiunque offende l’onore o il prestigio del presidente della Repubblica, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

È ovvio che qui i dati personali siano il nome e il cognome del soggetto e il suo status politico e gerarchico, il diritto leso è quello all’onore o al prestigio, e il trattamento effettuato è l’offesa (magari a mezzo stampa, tramite diffusione su quotidiani o con trasmissioni radiotelevisive).

Un altro esempio:

Art. 337.
Resistenza a un pubblico ufficiale.
Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale, o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto d’ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Qui il trattamento potrebbe essere l’acquisizione, da parte del pubblico ufficiale o delle altre persone in elenco, di dati e informazioni. L’opposizione violenta o minacciosa lo metterebbe nella condizione di non poter effettuare un trattamento previsto per legge.

Secondo me, è inutile che continuiamo a fare finta di nulla: governare l’informazione e i dati ormai è fondamentale per quello che può conseguire dal loro trattamento. Per questo sarebbe (passatemi l’esagerazione) anacronistico continuare a punire i trattamenti.

E, comunque, a ben vedere gli illeciti penali continueranno a esserci…

Riflessioni in merito alla PIA

Riflessioni in merito alla valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (PIA).

Il GDPR ci chiede di fare la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (conosciuta anche con gli acronimi PIA1 o DPIA2). Ma siamo sicuri di averne davvero compreso lo spirito?

In questo periodo noto un grande fermento attorno alla tematica della privacy, con molti articoli che spiegano cose che ormai rasentano la scontatezza.

Trovo pochi, pochissimi approfondimenti. Giusto per non dire che non ne trovo affatto. Gli unici contenuti sono le linee guida che qualche associazione zelante o ente pubblico competente ha avuto la pazienza di sviluppare e rendere pubbliche.

Per converso, social network come LinkedIn pullulano di post, scritti nei gruppi dedicati a specifici settori, in cui alcuni membri, che si presume siano professionisti esperti in quel campo, pongono domande anziché esporre il loro punto di vista.

Uno degli argomenti più gettonati e maggiormente abusati è, appunto, la valutazione d’impatto sui dati personali. C’è chi si chiede ancora se si debba chiamare “PIA” o “DPIA”, chi si pone l’annoso problema su chi debba effettuarla, chi domanda quando va fatta. Domande più che legittime, a cui poche risposte suonano in modo sensibilmente differente da quanto una qualsiasi persona di buon senso potrebbe arrivare a concepire se solamente leggesse  – e capisse cosa ha letto – il GDPR.

Molte risposte si limitano a dire che la PIA deve essere fatta solo quando ci sono rischi elevati per i diritti e le libertà delle persone fisiche.

Allora la domanda più logica, che verrebbe in mente a un incompetente, è: cioè? Quali sono questi rischi? E a questo punto, solitamente, arriva una seconda risposta che grossomodo è sintetizzabile con “i rischi sulla privacy: accesso non autorizzato, cancellazione o perdita del dato, modifica, divulgazione…”, ovvero quelli che siamo stati abituati a considerare, soprattutto in funzione degli standard in materia di sicurezza informatica.

NO!

I rischi per i diritti e le libertà delle persone fisiche non sono (solo) quelli.

Non è il caso di elencarli qui di seguito, ma invito i lettori a riflettere su questi due esempi concreti.

Il primo esempio riguarda i trattamenti effettuati durante le elezioni (se qualcuno è convinto che non ne vengano fatti, gli consiglio caldamente di procedere nella lettura). Cosa accadrebbe all’intera comunità identificata nella Repubblica Italiana se qualcuno si prendesse la briga di non trattare come previsto i dati personali nei seggi elettorali?

Vi ricordo che:

  • Al momento del controllo dell’identità si effettuano almeno l’acquisizione e il confronto dei dati indicati sul documento d’identità, sulla tessera elettorale e sul registro del seggio; e che
  • Fintanto che la scheda elettorale compilata rimane nelle mani dell’elettore è un dato sensibile.

Non veniamo a raccontarci la favola che non esiste il rischio che qualcuno voti più volte o faccia vedere a qualcun altro cosa ha votato.

Il secondo esempio lo riporto testualmente da un articolo pubblicato sul sito del quotidiano torinese La Stampa, il 3 marzo3, in cui praticamente si racconta la storia di due gemelli che per l’ordinamento giuridico italiano non esistono e non possono acquisire diritti personali, né fondamentali, né di alcun altro tipo:

Un ufficio del Comune di Torino ha negato la trascrizione dell’atto di nascita di due gemelli nati in Canada da una coppia di uomini con il sistema della gestazione per altri: l’atto era già stato trascritto per il padre biologico e non è stato esteso all’altro genitore. Palazzo Civico precisa che «le indicazioni date agli uffici erano di eseguire la trascrizione senza indugio. È una questione tecnica che affronteremo e risolveremo». Uno dei motivi del diniego, secondo quanto si è appreso, si richiama alla legge 40 sulla procreazione assistita, che vieta la surrogazione di maternità (permessa in Canada).

«Si tratta – viene spiegato – di una questione puramente tecnica a cui si sta cercando di porre rimedio sia per questo caso, sul quale stiamo lavorando per rimettervi mano, sia per il futuro».

L’amministrazione spiega anche che «non appena si è avuto sentore di casi simili, la Città ha presentato una interrogazione al ministero dell’Interno e allAnusca, l’associazione degli stati civili e anagrafi». «Inoltre – aggiungono – si sta valutando la possibilità di intraprendere una costituzione di parte civile a fianco delle coppie che richiedono il riconoscimento dei figli per far sì che le decisioni dei tribunali valgano anche per gli uffici comunali. Stiamo valutando tutte le strade possibili per risolvere questa problematica tecnica».


  1. Privacy Impact Assessment
  2. Data Protection Impact Assessment
  3. Così come risulta a seguito della modifica delle ore 16:09 del 03/03/2018.

Belle le linee guida sulla PIA, ma… Non manca qualcosa?

Belle le linee guida sulla PIA, ma… Non manca qualcosa?

Lo scorso autunno il Gruppo di lavoro sulla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali ha pubblicato le sue linee guida concernenti la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati personali (PIA, privacy impact assessment) e i criteri per stabilire se un trattamento possa presentare un rischio elevato ai sensi del GDPR.

Che dire? Belle, scritte bene, piuttosto utili, con qualche spunto di riflessione e molti collegamenti non proprio espliciti, ma… Secondo me manca qualcosa.

Tra gli aspetti positivi c’è certamente quello di ripetere più d’una volta il concetto che la PIA è un processo continuativo e che deve essere completato e riproposto periodicamente e secondo le caratteristiche del contesto di riferimento.

Di positivo ci sono poi tutti i richiami a norme volontarie e a linee guida e suggerimenti già pubblicati da altri soggetti (per esempio ISO, ICO, CNIL…), il suggerimento di avvalersi di soggetti esperti nella gestione e nella valutazione dei rischi e il collegamento a un generale concetto di gestione della qualità.

Poi ci sono gli esempi e le tabelle che aiutano a inquadrare meglio il discorso, assieme alle immagini e i grafici.

 Apprezzabile, a mio modo di vedere, il fatto che sia richiamato il registro dei trattamenti del titolare, poiché può costituire una buona base di partenza – se fatto bene – per procedere con la valutazione del rischio. Attenzione però: coinvolgere attivamente gli eventuali responsabili del trattamento (oltre ai DPO) è importante. E qui entrano in gioco gli accordi che vincolano i titolari e i responsabili, per rispondere alle esigenze che emergono in un’ottica di garanzia e responsabilità, di gestione dei rischi, di gestione della qualità.

Infine, ci sono addirittura i criteri per definire una PIA accettabile.

Eppure, lo ripeto, secondo me manca qualcosa. Sono migliorabili. E in quanto tali, se lette e applicate da persone inesperte, potrebbero comportare più danni che benefici.

L’inesperienza a cui mi riferisco non è tanto quella nel variegato mondo della protezione dei dati, quanto quella nello specifico mondo della gestione dei rischi, che non ha nulla a che vedere con gli aspetti legali o informatici, o con la compliance e gli audit, se non il fatto che questi ultimi due, se fatti male, rappresentano un rischio a cui non si dovrebbe rimanere indifferenti.

Le linee guida hanno il pregio di offrire una chiave di lettura orientata alla protezione dei dati personali – addirittura estendendone il concetto anche ad aspetti sociologici, etici e comunicativi e includendo anche il contenuto di agende, appunti e dati sensibili nel senso comune del termine – e di proporre almeno due nuovi diritti degli interessati – la loro consultazione (qui trovo che si avvicino molto ai concetti espressi con riguardo alle consultazioni dei rappresentanti sindacali o dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) e la definizione di un sottoinsieme costituito dai soggetti vulnerabili per i quali si dovrebbe avere un occhio di riguardo – ma trovo che siano piuttosto carenti nel definire effettivamente una strategia operativa standard che possa garantire almeno un livello minimo di adeguatezza nell’effettuazione del processo stesso. In primis per il fatto che partono dal presupposto che sia “facile” – o, almeno, non complesso – determinare se si sia o meno soggetti all’obbligo di condurre la PIA stessa.

Mi spiego meglio: nel diagramma di flusso, per come viene proposto (v. pag. 6 del testo in italiano), si parte chiedendosi se il trattamento possa comportare un rischio elevato; peccato che però non si faccia riferimento a come arrivare a tale conclusione. È come se mancasse tutta la fase di valutazione generale del rischio, al termine della quale, se si giunge alla conclusione che il rischio è basso o medio, si conviene che non sia necessario procedere alla PIA. Una sola lista di controllo che elenca i trattamenti esclusi e quelli inclusi, secondo me, non è sufficiente. È grossolano. È un errore madornale e da dilettanti. Non può essere considerato accountable, come direbbero gli anglofoni.

A queste linee guida, se il blocco di partenza del diagramma di flusso è il “punto 0”, manca il “punto -1”.

Forse, la più evidente mancanza di queste linee guida, è aver perso l’opportunità di consacrare una volta per tutte la protezione dei dati come aspetto strategico, tagliando i ponti con la scuola di pensiero che la vede ancora come adempimento burocratico che non apporta valore aggiunto.

È iniziato il processo di cambiamento del Codice privacy

È iniziato il processo di cambiamento del Codice privacy.

Solo pochi giorni fa il Parlamento delegava il Governo a emanare atti normativi per modificare il nostro Codice privacy, al fine di allinearlo alle disposizioni del GDPR che, come ben sappiamo o dovremmo sapere, è già in vigore e diventerà applicabile tra meno di sei mesi.

Nel frattempo, lo stesso Parlamento si è dato da fare per apportare le prime modifiche attraverso una legge: lunedì 27 novembre, infatti, è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Legge n° 167, del 20 novembre u.s, recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2017 (GU Serie Generale n° 277 del 27/11/2017). La legge entrerà in vigore il prossimo 12 dicembre.

Tralasciando il fatto che mi sembra incomprensibile delegare il Governo e poi agire direttamente (cfr. L 163/2017, art. 13, in particolare il co. 3, lett. b)), andiamo a vedere cosa è effettivamente cambiato e proviamo a determinarne gli effetti concreti.

Al codice in materia di protezione dei dati personali sono state apportate due importanti modifiche.

All’articolo 29 (Responsabile del trattamento), dopo il comma 4 è stato inserito il 4-bis:

“Fermo restando quanto previsto ai commi 1, 2, 3 e 4, il titolare può avvalersi, per il trattamento di dati, anche sensibili, di soggetti pubblici o privati che, in qualità di responsabili del trattamento, forniscano le garanzie di cui al comma 2. I titolari stipulano con i predetti responsabili atti giuridici in forma scritta, che specificano la finalità perseguita, la tipologia dei dati, la durata del trattamento, gli obblighi e i diritti del responsabile del trattamento e le modalità di trattamento; i predetti atti sono adottati in conformità a schemi tipo predisposti dal Garante”.

Sempre all’art. 29, il comma 5 è stato sostituito dal seguente:

“Il responsabile effettua il trattamento attenendosi alle condizioni stabilite ai sensi del comma 4-bis e alle istruzioni impartite dal titolare, il quale, anche tramite verifiche periodiche, vigila sulla puntuale osservanza delle disposizioni di cui al comma 2, delle proprie istruzioni e di quanto stabilito negli atti di cui al comma 4-bis”.

Infine, dopo l’articolo 110 è stato aggiunto il 110-bis. (Riutilizzo dei dati per finalità di ricerca scientifica o per scopi statistici), che recita:

1. Nell’ambito delle finalità di ricerca scientifica ovvero per scopi statistici può essere autorizzato dal Garante il riutilizzo dei dati, anche sensibili, ad esclusione di quelli genetici, a condizione che siano adottate forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati ritenute idonee a tutela degli interessati.

2. Il Garante comunica la decisione adottata sulla richiesta di autorizzazione entro quarantacinque giorni, decorsi i quali la mancata pronuncia equivale a rigetto. Con il provvedimento di autorizzazione o anche successivamente, sulla base di eventuali verifiche, il Garante stabilisce le condizioni e le misure necessarie ad assicurare adeguate garanzie a tutela degli interessati nell’ambito del riutilizzo dei dati, anche sotto il profilo della loro sicurezza”.

Dunque, quali sono gli effetti di queste prime modifiche al Codice? Vediamoli insieme.

Innanzi tutto possiamo dire che, soprattutto quando il responsabile del trattamento è esterno, il titolare deve stipulare con lui un contratto scritto, il cui contenuto è solo in parte vincolato dal nuovo Codice: al di là di quello che sarà la volontà delle parti, che si accorderanno come meglio riterranno, questo contratto deve contente almeno la finalità perseguita, la tipologia dei dati, la durata del trattamento, gli obblighi e i diritti del responsabile del trattamento e le modalità di trattamento. A ben vedere, è molto diverso dal testo del GDPR, che prevede che nel contratto siano indicati la materia disciplinata e la durata del trattamento, la natura e la finalità del trattamento, il tipo di dati personali e le categorie di interessati, gli obblighi e i diritti del titolare del trattamento, oltre a tutti quegli elementi indicati dalle lettere da a) a h) del par. 3 dell’art. 28 del GDPR e dai paragrafi successivi.

Già qui ci sarebbe da criticare fortemente chi ha scritto il testo delle Legge. A parte che è inutile averlo fatto, avrebbe almeno potuto copiare bene.

Nella seguente tabella evidenzio le differenze.

Caratteristiche del contratto Nuovo Codice privacy modificato GDPR
Forma scritta  Sì
Materia disciplinata No
Natura del trattamento No  Sì
Finalità perseguita No  Sì
Tipologia di dati  Sì
Categorie di interessati No
Durata del trattamento  Sì
Obblighi e diritti del titolare del trattamento No  Sì
Obblighi e diritti del responsabile del trattamento  Sì
Modalità del trattamento  Sì
Altre specifiche No  Sì
Obbligo di conformarsi agli schemi proposti dal Garante  Sì

L’ultimo periodo dell’nuovo comma 4-bis obbliga implicitamente il Garante a predisporre degli “schemi tipo”, cosa che il GDPR gli riconosce come facoltativa.

Sostanzialmente, il nuovo comma 5 non apporta variazioni o innovazioni nel modo in cui i titolari devono vigilare sui propri responsabili.

Il nuovo art. 110-bis, invece, offre una nuova opportunità per i titolari, ovvero quella di trattare ulteriormente i dati già in loro possesso per finalità di ricerca scientifica o statistiche. In linea con il par. 4 dell’art. 9 del GDPR, il Parlamento ha posto due importanti vincoli: il primo è che deve essere ottenuta un’autorizzazione da parte del Garante (magari ci sarà spazio per delle autorizzazioni generali?), mentre il secondo è che, comunque, a prescindere dall’aver ottenuto l’autorizzazione o dalle misure di sicurezza adottate, non sarà lecito trattare per finalità di ricerca scientifica o statistiche i dati genetici. Mi viene da chiedermi come ci si dovrà comportare quando questo divieto contrasterà con finalità d’interesse pubblico rilevante, come la salvaguardia della vita o dell’incolumità fisica dell’interessato o di terzi (cfr. Dlgs 196/2003, art. 26, co. 4, lett. b) e GDPR, art. 6, per. 1, lett. d) e art. 9), con particolare riferimento ai casi in cui qualcuno si sottopone a terapie mediche sperimentali che, per loro stessa natura servono a salvaguardare la vita di qualcuno e sono ancora in fase di studio e, quindi, fortemente legate alla ricerca.

Ritengo che soprattutto su quest’ultimo punto si apriranno dibattiti interessanti nel prossimo periodo.

Riflessioni sui contenuti e durata della formazione per i lavoratori

Riflessioni sui contenuti e durata della formazione per i lavoratori.

In materia di salute e sicurezza sul lavoro la formazione è obbligatoria e sottostà a regole normative e di mercato che possono essere inadeguate allo scopo: la tutela fisica e psicologica delle persone.

È un argomento spinoso, lo so, la formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro per i lavoratori. Ed è reso ancor più difficile dall’estrema ignoranza che le imprese hanno sull’argomento, unita allo scetticismo che provocano molti (troppi) operatori del settore che ci speculano sopra.

Il criterio con cui è poi stata scritta la norma di riferimento e l’accordo che ne regola i contenuti e la durata, poi, non è proprio dei più illuminati.

Partiamo dal fatto che sono individuati contenuti standard basati quasi esclusivamente su presunzioni. Si presume che aziende che operano in contesti merceologici simili, abbiano rischi simili. Il che può anche essere vero, fintanto che si affronta l’argomento in linea generale. Ma nel momento in cui la formazione assume un ruolo centrale nella prevenzione di incidenti e infortuni o malattie professionali o, più in generale, nella promozione della cultura della salute, questo approccio è assolutamente fallace e inadeguato: aziende con la stessa classificazione ATECO possono avere rischi diversi o rischi uguali ma a cui il processo di valutazione ha assegnato gradi differenti anche in modo sensibile.

Facciamo un esempio: tre officine meccaniche di tre datori di lavoro diversi. La prima impiega un solo operario, che è anche il titolare, ed è specializzata nel restauro di automobili d’epoca, ha un ambiente di lavoro relativamente piccolo e ordinato, funzionale allo scopo, e le lavorazioni sotto alle automobili sono effettuate scendendo in una fossa. La seconda è un’officina in cui lavorano cinque persone, in un ambiente e in un contesto in cui si dà poca importanza alla sicurezza, ci sono poche informazioni, strumenti e attrezzature vecchie e in cattivo stato di manutenzione, raramente sottoposte a controllo o revisione, un ambiente sporco e disordinato in cui si trovano vicini oggetti e sostanze infiammabili e potenziali fonti d’innesco perché i lavoratori fumano all’interno dei locali. La terza è un’officina nuova e all’avanguardia, un cui molte attività sono assistite da robot, e l’ambiente è organizzato, pulito e ordinato, i lavoratori sono tutti tecnici specializzati che frequentano frequentemente corsi di formazione e aggiornamento.

Ebbene, non serve un genio per intuire che i rischi presunti possono anche essere identici, ma quelli reali non lo sono affatto.

E qui la prima critica, al legislatore: visto che si vuole spostare l’accento sull’adeguatezza dei sistemi di organizzazione e di controllo, perché non si richiede una formazione adeguata al contesto, anziché una cosa che troppo spesso è standardizzata?

Secondariamente, vi invito a riflettere sull’essenza stessa della formazione. Questa è dovuta a un processo comunicativo che è finalizzato a trasferire dalla mente del docente alla mente del discente tutti quei concetti che devono servire a quest’ultimo per lavorare in sicurezza, conoscendo i suoi diritti, i suoi doveri e il modo in cui rapportarsi con gli altri e valutare i rischi della sua specifica attività. Quindi la comunicazione è efficace se e solo se il concetto che sta nella testa dell’emittente viene trasferito nella testa del ricevente e quest’ultimo elabora lo stesso concetto iniziale, partendo dalle informazioni ricevute. Se ciò non avviene, la comunicazione ha fallito. La formazione ha fallito. E bisognerà necessariamente interrogarsi sulle cause, perché non è detto che sia esclusivamente colpa del ricevente: se parlo a un sordo e questo non mi capisce, è scemo lui, o sono scemo io che non uso un canale e un mezzo adeguato? Se faccio una lezione a un cieco usando grafici e diapositive, è scemo lui o sono scemo io che non mi rendo conto che il metodo che ho scelto è assolutamente inefficace? Se parlo in gergo tecnico a un neofita, non posso certamente aspettarmi che mi comprenda.

E dunque la seconda critica, al sistema messo in piedi dagli enti di formazione: quanto può essere utile una lezione standardizzata, che non tiene conto delle dovute variabili e che viene progettata con il parametro della “durata massima” anziché della “durata minima” (prevista per legge)?

Se al termine delle otto ore di corso per i lavoratori a rischio basso il docente si rende conto che la classe non è adeguatamente preparata, a mio modo di vedere dovrebbe proseguire e cambiare modo di fare lezione, variare registro linguistico, mezzi e canali di comunicazione. Parimenti, se una persona padroneggia già un determinato argomento, ripeterlo ulteriormente potrebbe addirittura creare l’effetto non voluto di creare confusione, aumentando, di fatto, il grado di rischio.

Non si tratta di bocciare o promuovere persone, perché per quello c’è la scuola. A ben vedere, “promuovere” o “bocciare” non sono nemmeno concetti contemplati dalla norma: il punto è che finché le informazioni idonee e ritenute necessarie a salvaguardare la sicurezza del lavoratore non sono state assimilate dallo stesso, la formazione dovrebbe andare avanti a oltranza, a prescindere dal miglioramento e dall’aggiornamento continuo.

La simbiosi tra il registro del responsabile e la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati

La simbiosi tra il registro del responsabile e la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati

Sono due adempimenti richiesti dal GDPR con peculiari caratteristiche che si realizzano attraverso la formazione di due documenti distinti, solamente se ricorrono i casi specificati. Ma a ben vedere, il loro legame è molto più profondo di quanto possa apparire e potrebbe essere utile considerarli “simbiotici”.

In biologia la simbiosi è un rapporto che s’instaura a livello intimo tra due soggetti e che tende a legarli in maniera forte e mutuale, con lo scopo ultimo di portare un vantaggio reciproco a entrambi nel corso del tempo e dell’evoluzione del contesto di riferimento.

È possibile, dunque, trovare questo tipo di connessione tra il registro del responsabile del trattamento e la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati? E se è possibile, quanto sarebbe utile farlo?

Questa è la domanda con cui sono uscito dal seminario organizzato da AssoDPO a Milano lo scorso 26 ottobre, durante il quale si è ampiamente dibattuto sullo stato dell’applicazione del GDPR a circa 200 giorni dalla sua definitiva applicazione diretta su tutto il territorio dell’Unione. Molte informazioni utili e un importante spunto di riflessione, appunto.

Come mia abitudine, parto dal considerare i principali riferimenti normativi, per circoscrivere il discorso che altrimenti rischierebbe di divagare troppo. Vi invito, perciò, a considerare il secondo e quinto paragrafo dell’art. 30 e il primo dell’art. 35, avendo sempre in mente i precetti dell’art. 5.

Quando parlo di simbiosi intendo dire che esiste uno stretto rapporto che lega il registro del trattamento del responsabile alla valutazione d’impatto svolta dal titolare e viceversa e, in un’ottica complessiva di gestione del rischio, non trovo poi così assurdo ipotizzare che il contenuto del primo, dovrebbe essere considerato nella seconda, fermo restando che è anche dai risultati della valutazione d’impatto che deriva l’adozione del registro stesso.

Così, se è vero che un titolare che, a seguito della valutazione d’impatto, individuati rischi elevati per i diritti e le libertà degli interessati deve richiedere l’adozione di un registro da parte del suo responsabile anche se questo potrebbe applicare (al netto del rapporto con il titolare) la deroga prevista dal quinto paragrafo dell’art. 30, trovo altrettanto vero che, in un complessivo sistema di gestione dei rischi, il titolare abbia il legittimo interesse, per non dire il diritto, di consultare il registro del responsabile per venire a conoscenza di quali siano gli eventuali altri titolari con cui ha rapporti.

Questo perché oggi non è possibile non considerare anche gli “altri titolari” come una fonte di rischio. Così come in un condominio con locali a uso commerciale, quando si redigono i DVR per la sicurezza sul lavoro, non si possono non considerare anche le altre attività presenti per via delle conseguenze sull’affollamento complessivo in caso di evacuazione o con effetti diretti sulla valutazione di rischi derivanti dalla vicinanza con obiettivi “sensibili” per rischi di rapina o attacchi terroristici (pensiamo, per esempio, se nello stesso stabile ci fossero al piano terra una filiale di una banca o delle poste, e ai piani superiori un laboratorio di oreficeria e un’ambasciata o un consolato), analogamente si dovrebbero considerare gli altri titolari per via dalla loro “attitudine” a essere bersaglio di tentativi di violazioni di dati.

Proviamo a pensare al caso in cui un’azienda che si occupa di conservazione e archiviazione documentale. In pratica l’attività consiste nell’offrire uno spazio fisico in cui è possibile lasciare i propri documenti che saranno conservati e archiviati secondo logiche predefinite su scaffali all’interno di capannoni.

Bene, è chiaro che se oltre ai nostri, ci fossero anche documenti di altri titolari, penso ci sarebbe utile valutare il rischio che qualcuno che si introduce nell’archivio per danneggiare uno degli altri, possa accidentalmente danneggiare anche noi. E questa valutazione ritengo che possa essere utile per una protezione dei dati in senso lato, anche in caso di dati informatici e in caso di dati non personali in senso stretto (bilanci societari, brevetti, progetti di vario genere…).

E quindi lo chiedo di nuovo: esiste una simbiosi tra il registro del responsabile e la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati personali?

A mio modo di vedere, la risposta è affermativa: sì, perché se conosco il contesto di riferimento posso valutare e gestire il rischio.

A questo punto, quindi,  la questione si sposta sulla volontà del responsabile di rendere disponibile l’informazione. Gli strumenti contrattuali e tecnici per assistere il titolare nella sua valutazione senza necessariamente diffondere informazioni che il responsabile potrebbe voler o dover mantenere riservate esistono.